al Corriere di Como,
In merito all’articolo apparso
sul numero di domenica 10 novembre, inerente i retroscena che portarono ormai
33 anni fa alla chiusura della Ticosa, non posso non notare una lunga serie di
inesattezze, di vere e proprie false verità. Io, avendo lavorato nella fabbrica
per tutti gli anni ’70, ho vissuto sulla mia pelle una serie di situazioni, di
fatti i scolpiti nella storia di questa città, che stranamente non ho ritrovato
nel reportage in questione, contenente tra l’altro gli interventi di
protagonisti come Luigi Pratelli, responsabile del personale prima della fine,
e il figlio Maurizio, all’epoca stagista.
In particolare:
- Il voler dipingere i
sindacati e i lavoratori come ottusi rispetto ai tentativi della dirigenza di
salvare la struttura è totalmente inesatto. In quegli anni i vertici della
Ticosa procedettero infatti a ben tre ristrutturazioni interne, che portarono i
dipendenti dai oltre 900 di inizio anni Settanta ai 450 del 1980. Oltre a ciò,
vennero chiuse sempre nello stesso periodo gli stabilimenti della Colora e
della Bernasconi di Cernobbio, per oltre 400 esuberi;
- I lavoratori inoltre erano
così prevenuti nei confronti della dirigenza da aver acconsentito, nel periodo
in essere, a forti riduzioni della propria busta paga, tanto che alla fine
queste erano le più leggere in tutto il settore tessile a livello provinciale.
Più che ottusità, bisognerebbe parlare di
un fortissimo senso di responsabilità;
- Responsabilità che
purtroppo non sempre si è ritrovata nei quadri direzionali. Senza
generalizzare, è doveroso riportare gli atteggiamenti di alcuni personaggi a
libro paga della dirigenza, interessati solo ai propri profitti e non al
benessere dell’intera struttura. E’ possibile che Pratelli non ricordi il caso
dell’addetto alle buste paga, suo diretto sottoposto, trovato ad intascarsi i
fondi destinati ai periodi di malattia, infortunio e maternità? Altro che il
contrario, questa era la vera anarchia;
- Responsabilità, ancora.
Come si possono definire le avventure finanziarie della proprietà di fine anni
Settanta, come la società d’alta moda che nel giro di un mese perse più di un
miliardo di vecchie lire? Come si può chiamare il rifiuto di procedere ai
necessari investimenti, nonostante l’accordo con i sindacati del 1977 che
prevedeva di utilizzare i soldi della vendita della zona nord per rilanciare la
fabbrica?;
- I sindacati e i
lavoratori, altro punto toccato nel testo. Il già richiamato accordo del 1977
premeva in primo luogo per richiedere al Comune di Como una variante del piano
regolatore, che adibiva l’area della Ticosa a zona verde. Per evitare tutto
ciò, ossia una paralisi dell’intera area in quanto non si sarebbe potuto
nemmeno toccare un muro, lo sforzo fu massimo, anche sì con scioperi e presidi
dei lavoratori all’interno del consiglio comunale. Uno sforzo inutile, vista la
rigida intenzione della Giunta di Antonio Spallino di eliminare le industrie
dalla convalle. Se proprio dobbiamo dirlo, a dare su un piatto d’argento la
scusa per chiudere la fabbrica non furono le sigle sindacali, ma Palazzo
Cernezzi;
- I lavoratori,di nuovo.
Sono gli stessi che non videro nemmeno il reintegro di oltre 300 soggetti nella
zona nord citata in precedenza, da compiere insieme ad altre aziende come
previsto nella vendita. Sono gli stessi, per rispondere a Maurizio, che
accoglievano gli stagisti come parte della loro famiglia, cercando i
proteggerli dai continui tentativi di sfruttamento ai loro danni e di
insegnarli una professione, una pratica rispetto alla teoria delle scuole da
cui uscivano. Sono gli stessi, infine, che videro nelle fasi finali un
ulteriore richiesta di licenziamenti, 250 sugli ultimi 470 lavoranti rimasti,
prova definitiva di quanto la casa madre, la multinazionale francese Princel,
volesse davvero salvare la situazione;
- Si parla di ideologia,
nell’ articolo. In Ticosa oltre ai comunisti erano presenti i Gip, i gruppi
d’impegno politico della Democrazia Cristiana, e i Nas, i nuclei aziendali del
Psi. Tutti in prima fila nel difendere la fabbrica. L’ideologia era così forte
che Gianni De Simone, allora direttore de La Provincia e di sicuro poco tenero
nei confronti dei sindacati e della Sinistra in generale, scrisse dopo la
chiusura che sindacati e dipendenti non avevano alcuna responsabilità nel
tracollo;
Questa è la verità. Non sono
opinioni o pensieri, ma fatti oggettivi che il sottoscritto ripete da
trent’anni, senza mai essere contraddetto. Fatti che già da soli smentiscono
questi tentativi di modificare la storia secondo i propri comodi, approfittando
magari del tanto tempo passato. La memoria non si può cancellare, semmai
riaffermare con maggiore forza. Detto questo, sono pronto a confrontarmi con
chiunque voglia farlo.
Donato Supino, membro del
consiglio di fabbrica e segretario della sezione del Pci in Ticosa. Dal 1967 in
Colora, dal 1970 al 1980 in Ticosa.
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