Como, 11 novembre 2013,
al Corriere di Como,
In merito all’articolo apparso sul numero di domenica 10 novembre, inerente i retroscena che portarono ormai 33 anni fa alla chiusura della Ticosa, non posso non notare una lunga serie di inesattezze, di vere e proprie false verità. Io, avendo lavorato nella fabbrica per tutti gli anni ’70, ho vissuto sulla mia pelle una serie di situazioni, di fatti i scolpiti nella storia di questa città, che stranamente non ho ritrovato nel reportage in questione, contenente tra l’altro gli interventi di protagonisti come Luigi Pratelli, responsabile del personale prima della fine, e il figlio Maurizio, all’epoca stagista.
In particolare:
-      Il voler dipingere i sindacati e i lavoratori come ottusi rispetto ai tentativi della dirigenza di salvare la struttura è totalmente inesatto. In quegli anni i vertici della Ticosa procedettero infatti a ben tre ristrutturazioni interne, che portarono i dipendenti dai oltre 900 di inizio anni Settanta ai 450 del 1980. Oltre a ciò, vennero chiuse sempre nello stesso periodo gli stabilimenti della Colora e della Bernasconi di Cernobbio, per oltre 400 esuberi;
-      I lavoratori inoltre erano così prevenuti nei confronti della dirigenza da aver acconsentito, nel periodo in essere, a forti riduzioni della propria busta paga, tanto che alla fine queste erano le più leggere in tutto il settore tessile a livello provinciale. Più che ottusità, bisognerebbe parlare di  un fortissimo senso di responsabilità;
-      Responsabilità che purtroppo non sempre si è ritrovata nei quadri direzionali. Senza generalizzare, è doveroso riportare gli atteggiamenti di alcuni personaggi a libro paga della dirigenza, interessati solo ai propri profitti e non al benessere dell’intera struttura. E’ possibile che Pratelli non ricordi il caso dell’addetto alle buste paga, suo diretto sottoposto, trovato ad intascarsi i fondi destinati ai periodi di malattia, infortunio e maternità? Altro che il contrario, questa era la vera anarchia;
-      Responsabilità, ancora. Come si possono definire le avventure finanziarie della proprietà di fine anni Settanta, come la società d’alta moda che nel giro di un mese perse più di un miliardo di vecchie lire? Come si può chiamare il rifiuto di procedere ai necessari investimenti, nonostante l’accordo con i sindacati del 1977 che prevedeva di utilizzare i soldi della vendita della zona nord per rilanciare la fabbrica?;
-      I sindacati e i lavoratori, altro punto toccato nel testo. Il già richiamato accordo del 1977 premeva in primo luogo per richiedere al Comune di Como una variante del piano regolatore, che adibiva l’area della Ticosa a zona verde. Per evitare tutto ciò, ossia una paralisi dell’intera area in quanto non si sarebbe potuto nemmeno toccare un muro, lo sforzo fu massimo, anche sì con scioperi e presidi dei lavoratori all’interno del consiglio comunale. Uno sforzo inutile, vista la rigida intenzione della Giunta di Antonio Spallino di eliminare le industrie dalla convalle. Se proprio dobbiamo dirlo, a dare su un piatto d’argento la scusa per chiudere la fabbrica non furono le sigle sindacali, ma Palazzo Cernezzi;
-      I lavoratori,di nuovo. Sono gli stessi che non videro nemmeno il reintegro di oltre 300 soggetti nella zona nord citata in precedenza, da compiere insieme ad altre aziende come previsto nella vendita. Sono gli stessi, per rispondere a Maurizio, che accoglievano gli stagisti come parte della loro famiglia, cercando i proteggerli dai continui tentativi di sfruttamento ai loro danni e di insegnarli una professione, una pratica rispetto alla teoria delle scuole da cui uscivano. Sono gli stessi, infine, che videro nelle fasi finali un ulteriore richiesta di licenziamenti, 250 sugli ultimi 470 lavoranti rimasti, prova definitiva di quanto la casa madre, la multinazionale francese Princel, volesse davvero salvare la situazione;
-      Si parla di ideologia, nell’ articolo. In Ticosa oltre ai comunisti erano presenti i Gip, i gruppi d’impegno politico della Democrazia Cristiana, e i Nas, i nuclei aziendali del Psi. Tutti in prima fila nel difendere la fabbrica. L’ideologia era così forte che Gianni De Simone, allora direttore de La Provincia e di sicuro poco tenero nei confronti dei sindacati e della Sinistra in generale, scrisse dopo la chiusura che sindacati e dipendenti non avevano alcuna responsabilità nel tracollo;
Questa è la verità. Non sono opinioni o pensieri, ma fatti oggettivi che il sottoscritto ripete da trent’anni, senza mai essere contraddetto. Fatti che già da soli smentiscono questi tentativi di modificare la storia secondo i propri comodi, approfittando magari del tanto tempo passato. La memoria non si può cancellare, semmai riaffermare con maggiore forza. Detto questo, sono pronto a confrontarmi con chiunque voglia farlo.


Donato Supino, membro del consiglio di fabbrica e segretario della sezione del Pci in Ticosa. Dal 1967 in Colora, dal 1970 al 1980 in Ticosa.