di Manuel Alfeo Guzzon (Prc - La Sinistra)
E’ di poche ore fa la
notizia che riportano tutte le agenzie di stampa: “Belpietro
direttore de l’Unità per un giorno”, devo rileggere più volte
per capacitarmi della gravità della cosa. Poi un moto di
indignazione e di sconforto mi assale e ripenso a quanto abbiamo
perduto, al patrimonio politico, culturale e sociale disperso. La
stessa sensazione avevo già provato nel 2017 con la definitiva
scomparsa dalle edicole, anche se la crisi risaliva addirittura a
venti anni prima quando travolti dall’orgia privatistica la
proprietà venne affidata ad imprenditori esterni.
L’Unità non era un
giornale come gli altri, l’Unità era il nostro giornale, il
giornale dei comunisti, dei lavoratori, era la voce degli sfruttati,
la voce fuori dal coro della stampa borghese. Era nata nel 1924,
pensata da Antonio Gramsci che voleva un giornale popolare, che tutti
potessero leggere e allo stesso tempo un giornale di formazione
politica, sulla proprietà non c’erano mai stati dubbi, il
sottotitolo di allora riportava: “Quotidiano degli operai e dei
contadini”, non solo perché le notizie parlavano della loro
condizione di sfruttamento, ma perché la proprietà fisica prima che
politica era degli operai e dei contadini che autotassandosi a fronte
di già miseri salari permettevano l’uscita del giornale. E questa
condizione di inscindibilità tra proprietà materiale e politica,
di rapporto diretto tra il popolo e il proprio giornale è continuata
negli anni fino al 1997. Persino negli anni bui del fascismo l’Unità
veniva stampata di nascosto su improvvisati ciclostili, nelle
cantine, nelle soffitte, nei boschi e quando non si avevano
ciclostili, ricopiata a mano su fogli di carta velina e diffusa nelle
fabbriche, nelle campagne perché nessuno, nemmeno i fascisti sono
riusciti a far tacere la voce del partito comunista, durante la
Resistenza le eroiche staffette portavano l’Unità clandestina
nelle formazioni partigiane in montagna. Con la Liberazione la sua
tiratura raggiungeva oltre un milione di copie venduta e distribuita
in tutta la penisola e all’estero tra gli emigranti da un esercito
di diffusori che si sono succeduti negli anni supportati da quella
magnifica associazione “gli amici de l’Unità”, finanziati da
mitiche campagne di sottoscrizione e da migliaia di feste de l’Unità
che vedevano centinaia di migliaia di volontari impegnati nella loro
riuscita e come dimenticare i coccardisti che all’entrata delle
feste ti appiccicavano la coccarda de l’Unità chiedendoti una
piccola sottoscrizione. Io ho avuto l’onore di appartenere a quel
popolo di volontari e di diffusori, tutte le mattine prima di andare
al lavoro in edicola avevo un appuntamento, l’Unità era li ad
aspettarmi e giravo con l’Unità in tasca come quegli audaci di cui
parlava Guccini nella canzone Eskimo. Ma quel giornale non era solo
un simbolo di appartenenza ma una palestra di cultura e di sapere, la
migliore intellighenzia italiana vi scriveva, da Cesare Pavese a
Italo Calvino, da Pier Paolo Pasolini a Salvatore Quasimodo, da Elio
Vittorini ad Alfonso Gatto, solo per citarne alcuni, sulle pagine de
l’Unità si è espressa la migliore cultura del novecento. Poi con
lo scioglimento del partito comunista italiano, nell’ubriacatura
modernista degli anni ‘90 dove “privato era bello” e i partiti
un vecchio arnese della politica si è aperta la strada alla
privatizzazione fino alla definitiva rottamazione e chiusura nel
2017. Oggi l’ennesima beffa, uno schiaffo morale, non una
provocazione, ma un insulto, un insulto a Gramsci che l’ha fondata,
un insulto a chi ha pagato con la vita il possesso di una copia de
l’Unità, un insulto ai licenziati per rappresaglia politica perché
entravano in fabbrica con l’Unità, un insulto ai diffusori che
hanno percorso milioni di chilometri per farla arrivare in ogni casa,
un insulto a Berlinguer che abbiamo salutato in quella
indimenticabile giornata a Roma con quel titolo “Addio”, un
insulto all’Italia democratica e antifascista perché l’Unità
era patrimonio di tutti, un insulto a me che l’ho amata.
25/05/2019
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